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Channel: dov'è l'architettura italiana?
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il principe urbanista

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The Architectural Review ha pubblicato recentementei dieci principi per una crescita urbana sostenibile che valorizzi la tradizione sviluppati dal principe del Galles Carlo d’Inghilterra.
I dieci punti nella grafica di dezeen


Mi ha piuttosto sorpresoche questa rivista mi abbia chiesto di spiegare perchéritengo chegli approccitradizionali ei principi universali siano cosìimportantinella progettazione diedifici eambienti urbani.È confortante, devo dire, che la rivistastia incoraggiandoun'Grande Ripensamento'perchéla progettazione diluoghisecondo lascala umanae con la Nnaturaalcentro del processoè semprestata la miapreoccupazione centrale. La ragione di ciò, credo, è stato troppo spessofraintesa...
Ho perso il conto delle volte che sono stato accusato di voler riportare l'orologio indietro a una qualche Età dell'Oro. Niente potrebbe essere più lontano dalla mia mente. La mia preoccupazioneè il futuro...



The Prince of Wales at Poundbury - The Architectural Review

1. Le nuove aree di sviluppo urbano devono rispettare il terreno in cui sorgono, quindi non essere invadenti e adattarsi al paesaggio che le circonda. 
2. L'architettura èun linguaggio e ha bisogno diregolegrammaticali. 
3. Anche la scalaè importante e gli edifici si dovrebbero rapportare all'uomo, così come alle costruzioni e agli altri elementi che i trovano nel suo intorno.
4. Armoniadelle parti. La ricchezzaderivadalla diversità, comedimostrala natura, ma ci deve esserecoerenza e ogni edificiodeveessere in sintoniacon i suoi vicini, non essere uguale a loro.
5. La creazione dispazi delimitati racchiusida edificiè preferibile rispetto ai gruppi dicase, soprattutto perchè incoraggia gli spostamenti a piedi efa sentire le persone più sicure.
6. Anche i materiali sono importanti. Oggi utilizziamo troppo materiali standard, come cemento, alluminio, vetro e acciao, slegati dal carattere dei luoghi in cui costruiamo.
7. Limitare i segnali stradali e sostituirli con elementi come curve, piazze o alberi, che se posizionati ogni 60-80 metri portano i guidatori a rallentare quasi naturalmente.
8. Il pedonedeveessere al centrodel processo di progettazione e riprendersi la strada.
9. Densità. Lo spazio è prezioso, ma non dobbiamo necessariamente ricorrere ai grattacieli che alienano e isolano. Le case a schiera e gli edifici per appartamenti, come quelli di KensingtoneChelseaa Londra danno maggiori benefici con densità abitative piuttosto alte.
10. Flessibilità: la rigida pianificazione generata dall'ingegneria del traffico tenderebbe a rendere inutili tutti i principi enunciati sopra, ma è possibile adottare schemi più flessibili.

Inutile dire che l'articolo ha provocato numerosissime critiche dagli architetti, inevitabili quando si prende una posizione così distante da quasi tutto il mondo dell'urbanistica e dell'architettura contemporanee e si è (ingiustamente) uno dei personaggi pubblici più derisi e sottovalutati.


Devo confessare invece di aver provato interesse nella lettura dell’articolo, maggiore rispetto a quello generato mediamente da molti siti e blog di architetti e urbanisti italiani (e non solo!). 
Non essendo inglesi infatti possiamo leggere le considerazioni del principe come un contributo di un intellettuale, senza nessuna problema di sudditanza o condizionamento"politico" e  apprezzare il fatto che un non addetto ai lavori sia così preparato e interessato ai temi della progettazione architettonica e urbana. 
Direi che gran parte delle considerazioni fatte sono abbastanza condivisibili e in linea con le più recenti tendenze della biourbanistica, che si sta sempre più diffondendo soprattutto in quei paesi, penso ad esempio a Stati Uniti e Canada, che molto più degli altri e sin dall'inizio hanno sviluppato le loro città a misura di auto.
Non dovremmo mai dimenticare comunque che le principali scelte urbanistiche ed architettoniche vengono compiute da persone che non rivestono il ruolo di architetti, ma di politici e amministratori e questo ci “libera” da molte colpe. Colpe che noi architetti abbiamo deciso di accollarci quando, con l’idea di cambiare il mondo attraverso la città, abbiamo realizzato, complice una scellerata industrializzazione dell’architettura, i quartieri più invivibili che la storia ricordi.


EU Mies Award 2015 – Shortlisted

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The European Commission and the Fundació Mies van der Rohe have announced the 40 shortlisted works that will compete for the 2015 European Union Prize for Contemporary Architecture – Mies van der Rohe Award. In total, 420 works were nominated for the award.
40 shortlisted works - EU Mies Award 2015

The 5 Finalists will be announced in London by the end of February.
The exhibition with the 420 nominees can be visited at the Barcelona School of Architecture (ETSAB) until March 19.
On May 7 and 8 the finalists’ lectures, the exhibition opening and the ceremony celebration. 
The Prize will be presented on May 8.

Italian projects

Cantina Antinori, Firenze - Archea Associati
Expo Gate, Milano - Scandurra studio architettura


 My favorites

Childrens Home of the Future, Kerteminde (Dk) - CEBRA
 
Public Library,Ceuta (ES) - Paredes Pedrosa

 
The New Crematorium, Stockholm (SE) - Johan Celsing


University of Limerick (IE) - Grafton Architects
 
ARQUIPÉLAGO, Azores (P) - Menos é Mais Arquitectos


Jury members: Cino Zucchi (Chair of the Jury), Margarita Jover, Lene Tranberg, Peter L. Wilson, Xiangning Li, Tony Chapman and Hansjörg Mölk.


Jury members at work


villaggio olimpico

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Il Villaggio Olimpico è un posto bellissimo, è un quartiere pieno di spazio, di alberi, di verde, è tranquillo, non c’è traffico, è vicino a poli culturali e di aggregazione come l’Auditorium e il MAXXI e al complesso del Foro Italico e non è lontano neppure da Piazza del Popolo

Veduta aerea del Villaggio Olimpico - fonte google maps

Probabilmente si contende con il Corviale il primato di quartiere residenziale moderno più famoso di Roma, anche se appartengono a epoche e zone molto diverse.

Forse in ambito romano rappresenta l’applicazione più rigorosa delle teorie urbanistiche del movimento moderno, il purismo delle forme architettoniche libere, in questo caso non bianche ma rivestite dal mattone giallo che romanizza Le Corbusier, Mies van der Rohe e Gropius, grazie al talento degli architetti italiani dell’epoca.

E pensare che furono chiamati a progettarlo Libera,Moretti, Monaco, Luccichenti e Cafiero

Planimetria con i disegni degli architetti - fonte archidiap
Se oggi dovessimo radunare architetti così bravi (per non parlare dei committenti!), probabilmente faremmo meglio a rinunciare in partenza, altrimenti saremmo costretti a chiamare portoghesi  e spagnoli, forse qualche inglese e svizzero, chissà un olandese se promette di non spingersi troppo in avanti...
Poi non bisogna mai dimenticare i committenti. I questo caso l'INCIS, l'Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato, che decise di realizzare un quartiere per ospitare gli atleti delle Olimpiadi, da trasformare poi in residenze appunto per gli impiegati dello Stato. 
Semplicemente geniale. 

Case a "croce" attribuite a Libera

Case a "croce" attribuite a Moretti
Chissà se per EXPO 2015, che è un evento molto diverso, non si poteva pensare ad un modello simile, progettando padiglioni riutilizzabili successivamente come residenze sociali. 
Probabilmente avrebbero anche dovuto rispondere a qualche regola architettonica...



Non sappiamo chi abbia preso le altre decisioni fondamentali sulla sistemazione generale e non risulta che ci sia stato tra i progettisti un architetto incaricato specificatamente del progetto urbanistico, anche se le grandi somiglianze con Decima, di poco successivo e sempre dell'INCIS, attribuito a Luigi Moretti, fanno pensare a una sua pesante influenza.
Sicuramente le scelte più fortunate sono state l'altezza misurata degli edifici, la forte presenza del verde, i volumi circolari dei corpi scala in copertura e il rivestimento in mattoni. Provate ad immaginare cosa potrebbe essere diventato oggi questo quartiere se non fossero stati utilizzati i belli e duraturi rivestimenti in mattoni.


Il cuore del Villaggio Olimpico
In effetti il Villaggio Olimpico rappresenta un caso piuttosto unico nel panorama romano e contiene nella sua storia almeno due paradossi.

Il primo è quello di essere stato per lungo tempo un luogo periferico e degradato pur trovandosi a pochi passi dal centro di Roma e dai Parioli e Corso Francia, cioè due tra i quartieri più ricchi della città. Prima che venisse completato l’Auditorium, se non ricordo male era il 2002, con il mercato immobiliare in espansione, potevano bastare 200.000 euro per acquistare un appartamento tipo con soggiorno e due camere da letto, più o meno la stessa cifra necessaria ad esempio per acquistare a Conca d’Oro e a Talenti, quartieri decisamente più periferici.
Dettagli del Villaggio Olimpico

Il secondo è di essere ancora oggi un quartiere poco vissuto, con poche persone in giro, pur essendo dotato di spazi pubblici sconfinati, tra piazze e aree verdi. Infatti a tutti gli ampi spazi esterni compresi tra gli edifici, bisogna aggiungere i piani terra quasi sempre svuotati, i cosiddetti pilotis tanto cari a Le Corbusier che li teorizzò negli anni venti e che qui troviamo praticamente in tutto l’intervento, quasi come elemento unificatore. La loro applicazione permette, secondo le idee espresse da LC nei famosi 5 punti e riprese da moltissimi architetti negli anni successivi anche recenti, la libera circolazione delle persone e la permeabilità visiva a livello del piano terra. Il principio in sé potrebbe essere anche interessante, ma oggi possiamo vederne soprattutto gli effetti negativi, come ho già avuto modo di scrivere in Le Corbusier e i pilotis. Nel caso del Villaggio Olimpico, e non solo in questo, risulta piuttosto evidente come le persone non provino un particolare piacere nel passeggiare sotto gli edifici, soprattutto perché quelle zone sono buie e prive di cose interessanti, se non sono occupate dalle auto e dalle moto in sosta.

I pilotis del Villaggio Olimpico


Proprio a proposito dei piani terra, non posso fare a meno di pensare a che quartiere meraviglioso potrebbe diventare se lo spazio dei pilotis fosse restituito alla vita del quartiere e integrato in un progetto serio e meditato di riutilizzo del suolo alla scala umana. Provate ad immaginare se alla base degli edifici ci fossero degli appartamenti con giardino e delle attività commerciali, senza escludere attraversamenti delle linee e permeabilità visiva, e se tutte le strade interne, ripavimentate con materiali durevoli che riducano velocità e rumore, diventassero a traffico locale, con preferenza per le biciclette e i pedoni. Sono sicuro che rinascerebbe e l’operazione potrebbe anche avere delle solide basi economiche, sia grazie agli incrementi di cubatura residenziale e commerciale, che alle questioni energetiche. Il piano terra libero infatti, oltre ad essere funzionalmente inutile, a parte per il parcheggio che però lo deturpa, costituisce anche un fattore non indifferente di dispersione termica per l'edificio. Aggiungiamoci anche il fatto che tutta la parte al di sotto del viadotto di Corso Francia potrebbe molto facilmente e senza grandi costi diventare un parcheggio schermato dal verde e liberare molte aree dalle auto in sosta.


Edifici in linea a formare la corte quadrata
Il Villaggio Olimpico potrebbe veramente diventare un esempiointernazionale, ma forse non dovrebbe trovarsi in Italia e soprattutto a Roma.

EU Mies Award 2015 – Finalists

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EU Prize Mies van der Rohe Award 2015 - The 5 finalists


Antinori Winery - San Casciano Val di Pesa, Florence, IT 
Archea Associati
©PietroSavorelli

Danish Maritime Museum - Helsingør, DK
BIG- Bjarke Ingels Group
© RasmusHjortshoj

Philarmonic Hall Szczecin - Szczecin, PL
Barozzi / Veiga
© Simon Menges

Ravensburg Art Museum - Ravensburg, DE
Lederer Ragnarsdóttir Oei
© Roland Halbe

Saw Swee Hock Student Centre, LSE - London, UK
O’Donnell + Tuomey
© Dennis Gilbert

l'architettura in dieci punti

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Doppiando Le Corbusier e i suoi cinque punti, l'Ordine degli Architetti di Caserta attraverso la sua Commissione Cultura e con il contributo di vari architetti tra cui Gregotti, Purini, Cucinella e Molinari, ha pubblicato in occasione di un incontro pubblico avvenuto lo scorso 15 gennaio un manifesto sull'architettura in 10 punti.

Il Manifestosull’Architettura in dieci punti
Eccomi allora ad elencare qui di seguito, dopo quelli del Principe Carlo d'Inghilterra, i 10 punti nostrani, che venendo da Caserta hanno anche loro una vena principesca, anzi regale.


1. L’ARCHITETTO, padrone della tecnica e fautore della bellezza, deve recuperare il suo ruolo sociale di operatore culturale, intuendo le trasformazioni del suo tempo. Quale regista del processo creativo e costruttivo, è responsabile dell’interpretazione e della risposta alle esigenze, materiali e immateriali, della contemporaneità. È responsabile della qualità del suo lavoro e delle ripercussioni dello stesso sulla collettività, qualunque sia la scala progettuale e l’ambito di intervento.
L’architetto non è un lusso evitabile.

2. IL PROGETTO architettonico è il procedimento logico-scientifico teso all’individuazione di forme, organizzazioni e azioni finalizzate alla creazione degli spazi e degli oggetti per le attività umane. È tra le più alte espressioni della complessità intellettiva dell’uomo per l’uomo. 
Esso risponde a necessità più o meno esplicite della committenza, ma, tale risposta, valida hic et nunc, non può prescindere da fattori ambientali né essere avulsa dal locus.
Il processo progettuale appartiene, soprattutto, alla sfera creativa, nella quale fantasia, sentimento, necessità e tecnica si fondono in elaborazioni grafico-descrittive. È pertanto il risultato di una serie di esigenze, contingenti e intellettuali.
L’architettura si impone nella vita dell’uomo condizionandola. In tal senso, il progetto non sfugga
al senso civico e non si allontani dall’idea che una buona architettura influenzi la società.
La coerenza è il suo risultato vincente.

3. L’ETICA nella professione dell’architetto raccoglie i doveri e gli obblighi indirizzati al perseguimento di obiettivi collettivi, espletati attraverso la validità e la lealtà del proprio operato.
La qualità e il merito, non i fatturati, diventino, pertanto, i fattori discriminanti per tutti i progetti e le gare pubbliche; il concorso ne regoli l’accesso.
Anche quando il problema è la sopravvivenza, il comportamento etico è una necessità sociale imprescindibile. 

4. L’ESTETICAè obiettivo primario dell’architetto che deve produrre e diffondere la cultura del bello - il bello come luce del vero - sfatando l’idea che essa sia superflua e costosa.
L’estetica deriva dalla modulazione della luce, che disegna lo spazio e lo riempie di significato, dal giusto equilibrio delle parti e dei rapporti tra pieni e vuoti, dalla sua immanenza materiale, dalle condizioni di vita assicurate ai fruitori, dall’immediata riconoscibilità della sua identità.
La sconfitta della bellezza è la sconfitta dell’architettura. La sua immagine corrotta e declinata in sistemi dom-ino, assunti come facile preda del veloce costruire, dichiara il fallimento di un tema cardine del linguaggio moderno, determinando la decadenza del gusto estetico e l’assenza dell’architetto.
Occorre, pertanto, trasformare l’architettura dequalificata, tramutarla nel bello, enfatizzando gli elementi che la compongono e facendo in modo che una metamorfosi rispettosa si impadronisca dell’edilizia.
L’intento è restituire agli elementi primari il loro decoro, sottolineando il concetto che, proprio nella
loro semplicità, si cela la reale bellezza in verità e qualità.
La bellezza non sia soltanto un valore per chi la crea, ma, soprattutto, per chi la vive.

5. LA PREESISTENZAè l’insieme di elementi appartenenti a epoche diverse che, per determinati motivi naturali e non, connotano il paesaggio, formando lo spazio. La loro specificità, il valore e l’immanenza universale innescano il mutuo dialogo tra le parti. 
Compresa la sostanza di tale complessità, la preesistenza diventi, nel progetto, il piano d’appoggio da cui partire e distaccarsi, attraverso un lessico contemporaneo, che non sia imitazione, ma che si orienti verso la prosecuzione di una continuità spaziale e formale.
Affinché questo sia univocamente richiesto dalla committenza e proposto dagli architetti, si educhi a ciò che è stato sedimentato nella memoria collettiva, al suo rispetto e ai nuovi lessici: vale a dire all’architettura.

6. IL PAESAGGIO assolve una funzione strategica vitale: è fonte di risorse, è produttività, è casa e habitat per l’uomo. L’uso dissennato del territorio induce a una nuova consapevolezza.
Che si faccia riferimento a un paesaggio immateriale, di tipo percettivo-sensoriale, o a un paesaggio reale, dai caratteri fisico-ambientali, è indubbio che esso sia materia viva, ha propri ritmi ed equilibri che influenzano la qualità della vita dei luoghi e che sono influenzati dall’interazione umana.
L’architetto deve considerare discipline plurali per poter leggere le caratteristiche dei molteplici paesaggi e intervenire, contemperando le necessità di trasformazione con quelle di tutela.
Tale acquisizione, affiancata da una valida programmazione territoriale, sia la base dell’intervento progettuale, rivolto alla ricerca dell’equilibrio armonico tra uomo e natura.

7. LA CITTÀè un organismo pulsante costituito da relazioni, flussi ed entropie: una realtà mobile, in continuo divenire. Essa si deforma e si conforma, propagandosi sotto la spinta vitale di informazioni, di relazioni e di interconnessioni che si instaurano al suo interno e si espandono all’esterno.
Tessuto materiale della realtà immateriale, la città si trasforma e si adatta ai modi di vivere e fruire lo spazio e ne induce di nuovi. Tali trasformazioni agiscono sull’idea di città, intesa come entità individuale, favorendo la fusione tra realtà un tempo separate e lontane, e tendendo alla formazione di entità urbane policentriche e multiculturali.
L’architetto è chiamato a esplicitarne l’essenza, recuperando ciò che è stato cancellato e ricercando nuove forme che assecondino e accolgano le sempre mutevoli esigenze di spazio e di relazioni.
Smetta l’architettura di esibire esclusivamente se stessa! La sua bellezza, slegata dal contesto, è una manifestazione vacua, estranea o, addirittura, ostile.

8. LA SOSTENIBILITÀ - abuso verbale degli ultimi anni - nasce dall’esigenza di garantire alle generazioni future gli stessi diritti di quelle attuali, presentandosi come fenomeno globale, e, pertanto, va indagata, analizzata e poi assimilata.
Ogni comunità ha una sua storia, una sua evoluzione culturale che nel tempo si è espressa anche attraverso le architetture dei luoghi. L’architettura non può rientrare nella logica degli standard internazionali, trasformando gli edifici in prodotti dell’immagine, creando città derubate e denudate della propria identità.
Le conseguenze dell’attività edilizia richiedono un adeguamento del modello produttivo e l’adozione di strategie che tengano conto di un uso consapevole di risorse, tecniche, riciclo e riuso dei materiali.
In tale accezione, l’architettura accolga la sfida dei mutamenti in atto, senza dimenticare di preservare la continuità e servendosi delle tecnologie come mezzo e non come fine della ricerca architettonica.

9. LA MULTICULTURALITÀè dialogo tra forme, linguaggi, luoghi, funzioni e si sviluppa nella capacità della città di gestire sia le relazioni primarie sia le relazioni transitorie.
L’architetto, pertanto, è chiamato a riflettere sui contenuti sociali e collettivi della propria cultura, considerando anche le espressioni eteroctone. E’ questa la risposta per far coincidere l’architettura con la realtà dei luoghi e permettere la creazione di nuovi strumenti espressivi e modalità di ragionamento, che vedano l’uomo e non solo le forme, al centro dello spazio urbano: luogo concavo di confronto e incontro.
La programmazione e la progettazione urbana puntino a un’organizzazione armonica degli spazi e delle persone che li vivono, e considerino la diversità una delle risorse più grandi da cui attingere per favorire l’evoluzione e la crescita multiculturale.

10. LA CONTEMPORANEITÀè compresenza nello stesso tempo e nello stesso luogo di elementi e realtà diverse.
In un’epoca in cui l’architettura ha perso il suo carattere di firmitas temporale, per diventare un bene di consumo suscettibile al continuo cambiamento, la contemporaneità esprime più che mai la sua natura instabile e magmatica. Il recupero del duplice ruolo dell’architettura, intesa come espressione del suo tempo e luogo costruito per resistere nel futuro, diventi il fine dell’architetto e
della collettività.
Colmando la tradizionale distanza che esiste tra ricerca architettonica e costruzione reale del paesaggio, l’architetto si riappropri della sua responsabilità di autore contemporaneo e ritrovi il rigore teorico.


Lo sforzo di organizzare i pensieri in un documento utile culturalmente e professionalmente ai propri colleghi è già di per se un'azione lodevole che merita attenzione. 
Apprezzo molto anche l'idea di identificare ogni punto ordinatamente attraverso una parola chiave, anche se la sintesi annunciata nel titolo fatica a sopravvivere nella sua enunciazione. 
Visto che il post è già abbastanza lungo eviterò di commentare i punti, che vanno comunque nella giusta direzione, anche se risultano in alcune parti un po' retorici e ridondanti.
Mi limiterò a evidenziare alcuni concetti per me particolarmente importanti.

- L'architetto deve recuperare il suo ruolo sociale di operatore culturale
- Creazione degli spazi e degli oggetti per le attività umane.
- Il comportamento etico è una necessità sociale imprescindibile.
- La bellezza non sia soltanto un valore per chi la crea, ma, soprattutto, per chi la vive. 
- La preesistenza diventi, nel progetto, il piano d’appoggio da cui partire e distaccarsi.
- Ricerca dell’equilibrio armonico tra uomo e natura.
- La sua bellezza (dell'architettura), slegata dal contesto, è una manifestazione vacua, estranea  o, addirittura, ostile.
- Tecnologie come mezzo e non come fine della ricerca architettonica.
- Organizzazione armonica degli spazi e delle persone che li vivono.
- Espressione (l'architettura)del suo tempo e luogo costruito per resistere nel futuro.



Come scrive giustamente Massimo Locci a commento del manifesto casertano La promozione della cultura architettonica appare relegata a piccoli ambiti di eccellenza e l’obiettivo dell’innalzamento della qualità è sempre più difficile da raggiungere, se si esclude lo strumento di tutela delle opere del passato.

Progetto Flaminio - prima fase

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Con un comunicato stampa congiunto Roma Capitale e Cassa Depositi e Prestiti hanno annunciato i sei finalisti scelti per la seconda fase del Concorso per il Progetto Flaminio.
 

Il sindaco di Roma Ignazio Marino e  Direttore Generale CDP Investimenti Sgr esprimono compiacimento per la grande e qualificata partecipazione italiana e internazionale al concorso per il masterplan dell’area di via Guido Reni.[…]
Il programma prevede di collocare 35mila mq di residenze e strutture ricettive e commerciali per 10mila mq, un insieme di spazi e strutture pubbliche distribuite su 14 mila mq, e la Città della Scienza.
La partecipazione al concorso richiedeva agli architetti un curriculum e tre pagine che dimostrassero una posizione progettuale.
[…]

Foto Alberto Muciaccia
Per la precisione il bando richiedeva: 
- immagini e testi per un massimo di 5 pagine A4, riguardanti le proprie opere, realizzate o non realizzate che suggeriscano la loro attitudine verso la città e lo spazio pubblico e verso un approccio integrato alla qualità energetico-ambientale; 
- un curriculum di lunghezza non superiore a 3 pagine A4 in cui siano evidenziati i progetti realizzati e i risultati ottenuti in concorsi di progettazione, con indicati committenti e importi; 
- tre fogli formato A3 orizzontale, contenenti rispettivamente una propostaplanimetrica dell’area interessata, una immagine tridimensionale a scelta del Concorrente e una descrizione della lunghezza massima di 4.000 battute, spazi inclusi.

Foto Alberto Muciaccia
I sei finalisti propongono particolarità specifiche per la trasformazione dell’area in un mosaico di suggestioni che invitano alla discussione sulla pianificazione operata fino a questo punto, e soprattutto confrontano diversi atteggiamenti sulla sopravvivenza e durata degli edifici industriali militari. 
Foto Alberto Muciaccia
Curiosamente però da nessuna parte compare l'immagine o la descrizione della "posizione progettuale" dei gruppi finalisti, che pure deve essere stata piuttosto importante per le scelte della Giuria, viste le eccellenti esclusioni, fatte in chiaro e non in forma anonima, che possiamo leggere tra i nomi di tutti i 246 partecipanti al concorso.
Solo per citare le più importanti: RAFAEL  MONEO - ANTONIO CITTERIO AND PARTNERS SRL - GREGOTTI ASSOCIATI - ZAHA HADID ARCHITECTS - STUDIO LIBESKIND - MARIO CUCINELLA - 5+1 AGENZIA DI ARCHITETTURA - SKIDMORE, OWINGS & MERRILL - DAVID CHIPPERFIELD SRL - BERNARD TSCHUMI - STEFANO BOERI.

Bramante a Roccaverano

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L'anno 2014 è stato il cinquecentesimo dopo la morte di Donato Bramante (1444-1514), personaggio chiave dell'architettura rinascimentale italiana, che, come ha scritto Paolo Portoghesi in un articolo per il cinquecentenario apparso su Domuscon le sue opere mature ha messo in crisi il pluralismo regionale che aveva caratterizzato l’architettura quattrocentesca italiana e al quale egli stesso aveva dato un importante contributo, non per resuscitare l’architettura romana – come si credeva un tempo – ma piuttosto per ‘superarla’, utilizzando le regole vitruviane e l’esempio dei monumenti antichi in una nuova sintesi, forgiata sul modello della Chiesa, dotata quindi del crisma dell’unità e dell’universalità. […]
Bramante è entrato nella storia come fondatore di un nuovo linguaggio diffuso gradualmente in tutta Europa.



Io ho festeggiato l'anniversario di Bramante, che a dire la verità è passato quasi inosservato, scoprendo una piccola chiesa, attribuita a lui o comunque alla sua cerchia da studi recenti, in un paesino sperduto tra le splendide colline delle Langhe, Roccaverano.
Splendida è anche la chiesa che si affaccia insieme ai resti del castello sulla piazza principale del paese, dove ai tavolini del bar sotto il sole erano seduti gli immancabili turisti stranieri, forse olandesi, innamorati di quel turismo "lento" di cui l'Italia potrebbe essere ancora di più la protagonista incontrastata.

La chiesa “bramantesca” di Santa Maria Annunziata fu riportata al suo originale stato dai restauri fortemente voluti dal canonico don Pompeo Ravera fra gli anni 1946 e 1966. Con il concorso di tutto il popolo di Roccaverano furono eliminati gli stucchi settecenteschi e le pitture ottocentesche che, all’interno dell’edificio, ne avevano alterato completamente l’aspetto originario.(Chiesa di Santa Maria Annunziata) 


Molto legato alla città di Roma grazie al sodalizio con il papa Giulio II, che lo impegnò in opere importanti di ricostruzione della città come la fabbrica di San Pietro e il cortile del Belvedere in Vaticano, in realtà era nato a Fermignano, vicino Urbino, dove aveva iniziato la sua carriera artistica, che aveva poi proseguito con successo a Milano in età già matura e concluso gloriosamente a Roma come architetto di San Pietro.

Tutte le epoche avrebbero bisogno del loro Bramante, e la nostra certamente non è esclusa, di un architetto che guardi il passato con rispetto ma senza inutile nostalgia per interpretarlo, inserirlo nel presente e proiettarlo nel futuro.

conca d'oro

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Conca D'Oro è ancora oggi, che siamo prossimi ai tre anni dall'inaugurazione della metro B1 (13 giugno 2012), il capolinea temporaneo in attesa dell'imminente apertura della stazione Jonio (annunciata per il prossimo 21 aprile), che sarebbe dovuta avvenire in realtà un anno dopo. 
Ritardi a parte e nonostante il fatto che restano da completare ancora un paio di cantieri di superficie verso piazza Capri, che forse contribuiscono oggi a rallentare un po' il traffico, possiamo pensare che, essendo passato tutto questo tempo senza ripensamenti, l'assetto dell'area che vediamo sia da considerare quello definitivo.

Dal sito Romametropolitane - Foto di Romolo Ottaviani

La presenza della metropolitana, che questo quadrante della città attendeva almeno dal 1990, anno dei Mondiali e del famoso Piano per Roma Capitale, rappresenta un miglioramento importantissimo non solo per la zona, ma probabilmente per tutto il III Municipio, una città di circa 200.000 abitanti e anche per molti residenti dei comuni esterni. 
Da qui infatti ora è possibile raggiungere il Colosseo e l'Eur senza cambiare treno, oltre che la stazione Termini e lo scambio con la linea A.

Dal sito Romametropolitane - Foto di Romolo Ottaviani
A parte i ritardi piuttosto consistenti quanto incomprensibili, i costi fuori controllo e le inevitabili polemiche che hanno accompagnato questo intervento infrastrutturale tra i più importanti realizzati in tempi recenti a Roma, sembra che le modalità di utilizzo dell'area da parte dei cittadini siano state uno degli ultimi aspetti valutati in fase progettuale.
Sarebbe interessante poter aprire un capitolo sulla questione progetto, cioè su chi lo ha fatto realmente, perchè nell'appalto integrato il progetto esecutivo lo fa l'impresa che vince e quindi forse gli architetti al suo interno con la consulenza di esterni, il progetto di Conca D'oro è dello studio ABDR, ma è difficile capire dov'è il confine tra architetti e impresa. 
Soprattutto dopo le ultimissime dispute tra lo studio Chipperfield, che è arrivato a rinnegare il progetto e il Comune di Milano per la scarsa qualità delle finiture del MUDEC, abbiamo molti dubbi sulle reali responsabilità nello svolgimento dei lavori pubblici nel nostro Paese.

Nel nostro caso poi viste le interferenze anche con la gestione di strade, marciapiedi, verde, trasporto pubblico e più in generale impiantistica, è difficile anche stabilire il confine tra le responsabilità dell'impresa e quelle dell'amministrazione "multiforme".



L'area di Piazza Conca D'Oro su Google maps
La prima scelta, secondo me sbagliata, fatta a monte è stata quella di realizzare un parcheggio sotto il parco esistente, che non era certo da salvare, ma probabilmente lo erano i molti alberi ormai più che cinquantenni che lo animavano. Nessuna pietà è stata riservata alle povere alberature! Non si poteva evitare, soprattutto visto l'enorme spazio a disposizione nel Parco delle Valli in cui si poteva realizare un parcheggio molto più grande con meno tempo e meno soldi? 
Oggi la fascia di Parco a ridosso del Ponte delle Valliè occupata temporaneamente da un parcheggio di superficie, da un capolinea degli autobus e soprattutto da strutture di cantiere, che una volta inaugurata la stazione Jonio (dopodomani) non avranno più ragione di esistere. 
Cosa succederà con quell'area? Bisognerà fare degli interventi di riqualificazione per ripristinare lo stato dei luoghi, cioè farlo ritornare Parco verde? Sarà possibile? Quanto ci vorrà?


Oggi comunque siamo senza il parcheggio, non sappiamo se e quando sarà indetta la gara per la sua assegnazione, ma abbiamo già pagato in anticipo scavi - anche quelli archeologici si, ma chi avrebbe potuto mai immaginare che ci fosse una villa romana nell'area? - e strutture piuttosto costose come rampe di ingresso e uscita, sistemi ciclopici di aerazione naturale e vari volumi tecnici non ben identificati. Poi c'è la netta impressione che la stazione sia sovradimensionata; con lo scavo enorme che si è fatto forse tutta la piazza poteva diventare un grande parcheggio sotterraneo probabilmente salvando anche gli alberi e ridimensionando la stazione.


 
Altra scelta discutibile è stata quella di eliminare la svolta a sinistra a Via Conca D'Oro dal Ponte delle Valli, concentrando tutto il traffico sull'asse Piazza Conca D'oro-Via Martana-Viale Tirreno e creando ampie strade a senso unico con grande flusso veicolare e a volte pericolo per troppa velocità come  nel caso dell'ultimo tratto di Via Conca D'Oro. Un'altra serie di strane scelte sulla viabilità, in generale la mancanza di separazione tra traffico locale e di attraversamento, hanno fatto si che si sia spesso costretti a causa del traffico a giri molto lunghi solo per trovare parcheggio, rallentando ulteriormente la circolazione di tutti.




A ridosso dell'ingresso alla metro Val di Cogne-Val di Lanzo è stato aggiunto all'ultimo un volume tecnico recintato che, con la sua dimensione consistente, ovviamente non prevista in fase progettuale, rende il passaggio pedonale con uno dei flussi più consistenti talmente stretto da risultare "ridicolo" e chiaramente sbagliato.
Dall'angolo Via Martana-Viale Tirreno partono due percorsi pedonali che vanno verso la stazione, ma non si capisce bene quale sia quello che conduce alla metro. In realtà entrambi, ma la cosa più importante, cioè la presenza dell'ascensore in uno solo dei due, non è segnalata. 
In corrispondenza della fermata dell'autobus di Viale Tirreno, dove la mattina scendono molte persone per lo scambio con la metro, non è stato previsto un attraverso pedonale. Si è creato quindi una specie di sentiero spontaneo nel verde creato dal passaggio delle persone, cosa già successa anche a Piazza Annibaliano per un errore simile sul flusso pedonale. 
La presenza di un volume costruito proprio a ridosso dell'incrocio Via Martana-Viale Tirreno con l'interminabile (e dai tempi incomprensibili) semaforo oscura la vista ai veicoli che svoltano a sinistra e rende l'incrocio inutilmente pericoloso.
Il marciapiede di Viale Tirreno che confina con il Parco è troppo stretto, anche se serve solo a raggiungere l'auto in sosta e visto lo spazio a disposizione forse si poteva fare più ampio.



Se passiamo alla vera e propria Piazza Conca D'Oro, la parte più stretta di tutto l'invaso, quella verso il Ponte delle Valli, troviamo credo gli errori più grossolani di tutto l'intervento. 
Il primo più macroscopico, anche qui probabilmente a causa di dotazioni impiantistiche dimensionate male in fase progettuale, riguarda l'attraversamento pedonale principale in testa alla piazza, che in corrispondenza dell'isola centrale si restringe in maniera tale da risultare inadeguato, costringendo spesso i pedoni a passare fuori dal cordolo di protezione.
Piuttosto evidente è il diverso livello di affollamento delle due fermate degli autobus, entrambe adiacenti all'ingresso/uscita della metro che però è rivolto dalla parte opposta. Probabilmente non si sono voluti mischiare i flussi, ma così si sono ridotti molto gli spazi e si è reso meno fluido lo scambio. Nel caso della fermata verso la "periferia" poi, anche a causa dell'elevato e prevedibile affollamento, lo spazio predisposto è chiaramente insufficiente; quella direzione centro invece, che è per ovvi motivi più scarica, c'è la metro, ha a disposizione uno spazio enorme a scapito della viabilità stradale ristretta e costretta ad una curva poco agevole e con scarsa visibilità.


Sembra incredibile che in un intervento di questa dimensione contenuta possano essere stati commessi tanti errori così grossolani, e mi sono limitato alla parte in superficie che è quella con l'impatto maggiore e più importante con la città.
Paradossale il fatto che in presenza di un general contractor, che dovrebbe garantire il coordinamento del lavoro di tutti, compreso quello degli architetti, si riscontrino moltissimi errori legati proprio al coordinamento progettuale.  



Probabilmente dopo tutte queste considerazioni potranno far sorridere appunti sulla qualità dei materiali, ma da architetto non le posso evitare. 
I cordoli in travertino che delimitano le aree verdi e si alzano gradualmente fino a fare da spalliera alle sedute in legno e acciaio sono molto eleganti così come le sedute appunto e come il disegno dei percorsi in pietra chiara. 
Capisco e apprezzo molto meno la necessità di utilizzare tanti materiali diversi per i rivestimenti: la pietra chiara per le parti più basse, la pietra (troppo) scura per i volumi tecnici e i pannelli color ruggine. Oltre alle troppe variazioni cromatiche, si vedono anche troppi brutti dettagli. Peccato.

Chipperfield e il MUDEC

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La polemica tra l'architetto inglese David Chipperfield e il Comune di Milano riguardante il complesso del MUDEC, il Museo delle Culture nell'area ex Ansaldo, è alla ribalta già da parecchi giorni prima e dopo l'inaugurazione avvenuta il 27 marzo scorso.

Architectsjournal - Photo © Oskar Da Riz

Dopo gli articoli di cronaca sulla stampa generica italiana infatti il caso Chipperfield sta rimbalzando sulle riviste web specializzate in architettura sia italiane che straniere ed è diventato ormai di rilievo internazionale.
All'inaugurazione del Museo lo studio Chipperfield, autore del progetto, non era presente e in pratica non ha voluto mettere la sua firma sull'edificio realizzato. 
Il problema è la pavimentazione disomogenea e posata male, che sembra più la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di problemi, ritardi ed incomprensioni reciproche, anche se le foto pubblicate sul Giornale dell'Architettura parlano da sole.


A parte l'evidenza del fatto, come dice giustamente Chipperfield si tratta di Cose per le quali non serve un occhio esperto, le vedrebbe anche mia madre, occorre forse allontanarsi un momento dalla polemica e fare alcune considerazioni più generali sull'architettura e le opere pubbliche in Italia, problema già noto che lo stesso Chippefield solleva, forte della sua ampia esperienza sul campo con vari progetti italiani in corso. 
Nel 2000 abbiamo vinto la gara per Ansaldo Città delle Culture. In questi ultimi anni abbiamo vinto anche la gara per l’ampliamento del cimitero San Michele di Venezia, quella per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia di Salerno e quella per la realizzazione del Museo di Storia naturale di Verona. Questi e altri progetti successivi, come la ristrutturazione dell'Ospedale di Santa Chiara a Pisa, dimostrano il nostro interesse e il nostro impegno per l’edilizia nel settore pubblico italiano. Spero di non apparire indiscreto se affermo che i progetti pubblici in Italia non sono cosa semplice...


Architectsjournal - Photo © Oskar Da Riz


Forse basta mettere in fila alcuni dati, sempre grazie al Giornale dell'Architettura, per avere un'idea di cosa può succedere ad un'opera pubblica in Italia.
Chipperfield vince il concorso nel 2000. L'appalto dei lavori viene vinto nel 2009 dall'impresa Consorzio Cooperative Costruzioni con un ribasso del 39% (che in qualche modo dovrà riguadagnare). La direzione dei lavori di un'opera di grande qualità architettonica viene affidata al Comune di Milano, che nel 2011 decide di sostituire la pietra scelta dal progettista per i 5000mq di pavimentazione. (Perchè? Per risparmiare? Chi ha risparmiato da questa scelta?)

Oggi siamo nel 2015 e si è stati costretti, per aprire in tempo il museo per l'Expo, a concludere i lavori di corsa con evidenti problemi nella qualità della realizzazione.
Un'altra particolarità di questo episodio, sottolineata con intelligenza da Alberto Caruso nel suo articolo su Linkiesta, è che la polemica riportata sui giornali sia nata tra il progettista e l'assessore alla cultura, non quello competente ai lavori pubblici. Quindi chi ha parlato di dettaglio, riferito ai 5000mq di pavimentazione, e di faticoso rapporto con lo studio Chipperfield, non è l'assessore competente nella materia (non lo è neppure professionalmente essendo un musicista) e forse non ha neppure vissuto direttamente le vicende di cui ha parlato. 



Le architetture di Chipperfield puntano moltissimo sulla qualità dei materiali e sul dettaglio in fase di realizzazione, vista anche la semplicità delle forme e dei volumi, quasi fuori tempo in un'epoca caratterizzata soprattutto da architetture esibite e "urlate", in cui il dettaglio è divenuto spesso più una questione tecnologica che architettonica. 
A proposito di questa "diversità"è estremamente interessante la conversazione di Chipperfield con Caruso e St John pubblicata sul numero 87 di El Croquis a lui dedicato, perchè l'architetto racconta bene la sua visione e il senso dell'architettura. 
All'inizio della carriera indipendente, prima aveva lavorato nello studio di Richard Rogers, si è dedicato quasi esclusivamente all'architettura degli interni sviluppando quindi una particolare capacità nella scelta e nell'utilizzo dei materiali.
Quindi in Miyake ho capito che se fai un pavimento in pietra, la sua presenza non è tanto forte come quando fai tre gradini in pietra. E' a quel punto che puoi vedere la pietra non solo come una superficie, ma come un peso... un materiale.


La vicenda quindi non può meravigliare nessuno che conosca un minimo il mondo delle costruzioni, visto che oggi in Italia c'è una cultura scarsissima del realizzato bene.  
Nei progettisti c’è in genere molta confusione sul linguaggio architettonico che spazia dalla voglia di strafare riempiendo gli edifici di svariati colori, forme e materiali, all’incapacità di uscire da un orizzonte molto limitato dal punto di vista formale e culturale, unita spesso a una scarsa esperienza realizzativa; nelle imprese di costruzione si può vedere una notevole cultura dell’approssimazione e spesso una visione del progettista come ostacolo alla conclusione veloce e sbrigativa del lavoro; nella pubblica amministrazione una mancanza di visione ampia e futura che si risolve nel la riduzione di tutto ad una pratica burocratica da concludere se possibile con il minimo sforzo e il minor rischio possibile.
 
Il commento finale di Chipperfield è sacrosanto: Ma l’architettura non ammette scuse di sorta: ciò che è costruitoè costruito. In seguito non contano più né il cliente, né l’appaltatore e neppure l'architetto, conta solo l'edificio. Le discussioni, le controversie, le personalità non sopravvivono, solo ciò che è stato costruito rimane, ed è questo il motivo per cui questa storia è così triste. È triste che la pubblica amministrazione abbia dedicato così tanto tempo a declinare le responsabilità e così poco alla risoluzione del problema»

la garbatella

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In questi giorni e fino al 24 aprile all'Acquario romano, Casa dell'architettura e sede dell'ordine degli architetti di Roma, è in corso Una mostra sulla Garbatella / 1920-1940, inaugurata il 9 aprile scorso con una giornata intera dedicata ad un incontro-dibattito sul quartiere.

 
In realtà l'ambizione del curatore Antonio Pietro Latini era quella di partire dalla Garbatella, come quartiere giardino almeno nella sua concezione iniziale, per inserirlo nel dibattito sulla città diffusa o leggera e per esplorare il possibile sviluppo estensivo della città di domani.

L'incontro ha avuto due sessioni, la prima dedicata alla Garbatella e al suo legame con la tradizione della città giardino, la seconda al futuro della città giardino.


All'inizio c'è stato il saluto dell'Assessore alla Trasformazione urbana di Roma Capitale Giovanni Caudo, che ha sottolineato come la trasformazione urbana sia inevitabile e che, se non governata, rischia di essere peggiore del progetto a cui ci si oppone. Un'altra osservazione intelligente è stata che a Roma ci sono molte maniere di abitare, grazie ai diversi volti della città.
Daniel Modigliani, oggi commissario dell'ATER (ex IACP poi ICP), ha ricordato che sono stati banditi dei concorsi per selezionare i progettisti migliori, che anche nel progettare un quartiere giardino si sono comunque preoccupati del rapporto degli edifici con la città.

Area della Garbatella tra il Tevere e la Colombo - Google maps

In generale quindi la mattinata è stata dedicata ad inteventi di studiosi della Garbatella, delle sue architetture e del suo inserimento nel dibattito internazionale sulla città giardino, richiamando l'importanza della figura di Gustavo Giovannoni, fondatore della Facoltà di Architettura di Roma, teorico dello sviluppo della  città e autore del saggio Vecchie città ed edilizia nuova.
Ci voleva l'architetto e professore americano Steven Semes della University of Notre Dame per farmi scoprire che gli edifici porticati quasi gemelli di Piazza Caprera, cuore del quartiere delle Alpi (tra i miei preferiti), sono proprio del "povero" Giovannoni.

Poi è intervenuta Paola Rossi, responsabile area concorsi dell'ordine, per parlare del concorso di rigenerazione del Corviale (?), che l'ATER ha intenzione di lanciare entro l'estate del 2015.


Ettore Maria Mazzola ha parlato della città pubblica realizzata a Roma nella prima metà del Novecento e della sua sostenibilità economica, evidenziandone le qualità del costruito e degli spazi pubblici, come elementi da cui ripartire per la riqualificazione della città. 



Cos'è la Garbatella? Cosa rappresenta? In fondo è un quartiere con molti linguaggi architettonici e tipi edilizi diversi, dai villini a due piani del nucleo iniziale ai fabbricati a più piani successivi, che sono stati realizzati nel corso del tempo dagli anni venti in poi. Sicuramente in molte sue parti fa pensare più ad un piccolo centro che ad una grande città.
Ho la netta sensazione anche dopo questa giornata che la Garbatella rappresenti una specie di parola magica, molto popolare, associata ad un'idea di città a misura d'uomo che a Roma abbiamo perso gradualmente a partire dagli anni '60 e in molti casi anche prima.



Come è stato detto giustamente dalla Stabile a Roma ci sono mille Garbatella più o meno grandi inserite nel tessuto urbano e sono tali sia per il linguaggio architettonico minore, il cosidetto barocchetto, che attinge senza troppe ambizioni ad un repertorio di forme della tradizione che va dal tardo rinascimento al tardo barocco, sia per i tipi edilizi "umani", in genere villini, fabbricati o palazzine, che per gli spazi aperti misurati e saggiamente bilanciati tra pubblico e privato.
La strada, il marciapiede, la piazza, la scalinata, il giardino nella corte degli edifici e quello privato delle abitazioni a piano terra, il muro che lo separa dalla strada, il basamento, le cornici e i davanzali delle finestre, il coronamento, il marcapiano,i balconi e le coperture.

 


Tutti questi elementi li ritroviamo oltre che a Garbatella in moltissime altre zone di Roma e sarebbe davvero interessante costruire una mappa in cui identificarle e lo avevo già accennato nel post case sul lungotevere flaminio. La cosa più importante è che sono sia in quartieri progettati dallo IACP poi ICP, che in quartieri realizzati da cooperative e da privati, sono in aree molto ampie e in piccole porzioni di città, sono in zone signorili e in quartieri popolari, in aree densamente popolate e in aree a villini. Sono la città di Roma della prima metà del Novecento, quella in cui tutti vogliamo abitare: San Giovanni, Porta Maggiore, Aventino, San Saba, Piazza Verbano, Via Nemorense, Flaminio, Piazza Caprera, Città Giardino, Tufello, Prati, Monteverde...
Questa sapienza o meglio questo insieme di sapienze che fanno la città, che hanno fatto anche la città di Roma, sono state completamente dimenticate quasi simultaneamente. 

Forse per semplicità storica si potrebbe indicare il 1962, anno del nuovo PRG romano e della legge 167 per l'edilizia economica e popolare, come anno fondamentale di passaggio di Roma da una città con un impianto tradizionale in cui anche con la grande crescita dal 1870 si è avuto uno sviluppo moderno controllato, ad una città che ha sposato in ritardo le nuove tecnologie insieme alle nuove teorie urbanistiche, dando vita ad un'altra città parallela e nuova, quasi del tutto priva di identità e qualità urbana. Proprio quello che in base al sentire comune delle persone e anche di molti architetti e urbanisti Garbatella possiede ancora oggi.


La sessione pomeridiana dell'incontro ha avuto un carattere molto diverso, sicuramente più stimolante e proiettato al futuro della città e dei territori in genere e la Garbatella come quartiere e oggetto costruito vivente è sparita dalla discussione dopo il filmato in 3D della sua ricostruzione.
Il racconto e le riflessioni sul dibattito lanciato da Latini intorno al futuro delle città giardino e allo sviluppo possibile della città leggera in riferimento al territorio romano e non, meritano una trattazione più ampia e autonoma e le rimando ad un post dedicato.

cities for people

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Cities for people è il titolo del libro scritto nel 2010 da Jan Gehl, architetto, professore e ricercatore danese, partner e fondatore dello studio Gehl Architects. 
Questa è la missione dello studio: 
Ci concentriamosu come l'ambiente costruitosi collegaallaqualitàdella vita delle persone. 
Richard Rogers nella prefazione al libro scrive:
Jan Gehl, il decano del progetto dello spazio pubblico, ha una profonda comprensione di come noi usiamo gli spazi pubblici e ci offre gli strumenti di cui abbiamo bisogno per migliorare il disegno degli spazi pubblici e, come conseguenza, la qualità delle nostre vite nelle città. 


Uso il titolo inglese perchè in inglese è la versione che ho acquistato e poi letto, visto che il libro, tradotto già in moltissime lingue, non è disponibile in italiano (mi piacerebbe molto tradurlo!).
In realtà leggendo la storia dell'autore e il libro, non ci si può meravigliare più di tanto. 
L'Italiaè una presenza costante, come riferimento per gli ambienti di vita più preziosi, quelli a misura d'uomo in cui le persone vivono a loro agio, le nostre piazze e i nostri centri storici (la piazza di Siena e il centro storico di Venezia i più citati e fotografati), un patrimonio che tutto il mondo visita, ammira e continua a studiare, forse oggi ancora più di ieri. 
Non è un caso che nel 1965 Gehl, all'inizio della sua carriera, abbia viaggiato in Italia insieme alla moglie psicologa per osservare i rapporti tra la vita delle persone e lo spazio pubblico, soprattutto per cercare quegli esempi positivi che mancavano del tutto alle periferie che stavano nascendo in quegli anni in Danimarca. In realtà sono nate anche in Italia in quegli anni e dopo.

Jan Gehl in Italia nel 1965 - Foto da Gehl Architects
Come potrebbe quindi un architetto danese venirci a dire, intendo pubblicando il libro in italiano, che le nostre piazze sono luoghi di vita meravigliosi? Dovremmo essere in grado di vederlo da soli, passeggiandoci meglio che vedendo le foto su un libro, se non fossimo così occupati a inseguire il sogno americano fatto di villette, centri commerciali e file in auto interminabili (dopo aver abbandonato l'ideale socialista delle periferie tutte uguali). Quel sogno (non parlo di economia ma di urbanistica) che gli americani, almeno quelli delle nuove generazioni, non vogliono più e infatti oggi cercano l'Italia e l'Europa, nel senso della città compatta che non hanno. Allora continuano a nascere iniziative per accrescere le aree pedonali nelle città, misurate costantemente da siti specializzati e placemakers che si occupano dell'analisi, del racconto e della riqualificazione dello spazio urbano per restituirlo alla vita dei cittadini.

Times Square New York before and after - Gehl Architects
Il libro è molto bello, illuminante, soprattutto lontano nei principi e nel metodo da quei noiosissimi "trattati" urbanistici ingessati e inutilmente tecnici, in cui si parla di densità abitativa paragonando la Garbatella al Corviale (!?), così come da quei saggi così "alternativi" e moderni (o assolutamente moderni nel senso perfettamente descritto da Kundera).
Jan Gehl ci racconta il suo lavoro sullo spazio urbano, ci mostra gli esempi del passato da cui partire, quelli del presente riusciti e le possibilità per il futuro delle città, con particolare riferimento a quelle in via di sviluppo in cui sarebbe fondamentale non ricadere in tutti gli errori compiuti nelle aree di espansione delle metropoli europee e americane. (Ho paura che stiano facendo le cose molto, ma molto peggio di noi...)
Già solo la lettura dei titoli dei capitoli in cui è strutturato il libro

- La dimensione umana 
- Percezioni e scala 
- La città vivibile, sicura, sostenibile e salutare 
- La città ad altezza d'uomo 
- Vita, spazio, edifici, in questo ordine 
- Città in via di sviluppo

fa capire chiaramente che si tratta di una specie di manuale per il progetto della città e dei suoi spazi pubblici, pieno di informazioni, esempi, foto, schemi, tabelle, già sufficienti a comprendere immediatamente i problemi delle nostre città e le loro cause.
L'elemento più evidente è la perdita di spazio utile alla vita cittadina, ceduto col tempo alle auto in movimento e in sosta nelle parti già esistenti e concepito in maniera sbagliata in quelle realizzate in epoca moderna, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo.
Si passa da considerazioni fondamentali sulle distanze percorribili a piedi, a quelle sulla percezione visiva perduta in spazi urbani sconfinati, così come in quartieri con edifici troppo alti o troppo lunghi e dotati di piani terra privi di interesse e varietà.
Gehl definisce la Sindrome di Brasilia , dalla famosa capitale amministrativa del Brasile costruita dal nulla negli anni cinquanta su progetto di Lucio Costa, architetto molto vicino a Le Corbusier, come l'esempio emblematico e disastroso, dal punto di vista della vita cittadina, di una progettazione condotta solo a scala generale, per aree funzionali ed edifici simbolici e scultorei, senza capire il senso e la scala degli spazi cittadini che si sarebbero creati, quelli in cui le persone spariscono inghiottite da spazi dimensionati in maniera del tutto sbagliata. Non è necessario andare a Brasilia per vedere questo tipo di errori.  

Herald Square New York before and after - Gehl Architects

Città come Copenhagen, Melbourne, San Francisco e New York hanno promosso negli anni più recenti molti interventi per favorire la vita cittadina, restituendo alla città e ai suoi abitanti spazi che avevano perduto soprattutto a favore delle auto. 

L'Embarcadero di San Francisco, chiuso al traffico nel 1989 a causa del terremoto, è rimasto anche dopo l'emergenza un grande spazio pubblico amato e frequentato dai cittadini. 
A Roma in scala molto più piccola potrebbe accadere a Via Urbana, dove un comitato di commercianti e residenti chiede con insistenza la pedonalizzazione (incredibile!) dopo aver sperimentato felicemente la chiusura al traffico a causa di lavori stradali.
New York già dal 2007 sta attuando una politica urbana per la pedonalizzazione e la ciclabilità e il risultato più clamoroso è la parziale pedonalizzazione di Times Square, quello snodo di traffico incredibile, scena privilegiata di moltissimi film. 
Su Copenhagen e sul fatto che è diventata praticamente una città di ciclisti sappiamo già molto, anche perchè la cultura della bici esiste già da molti anni.
A Brighton Gehl architects ha progettato una strada in cui circolano tutti, ma al passo dei pedoni e questo ha trasformato una strada carrabile poco frequentata in una passeggiata piena di vita.

Brighton New Road - Gehl Architects

Non sfuggirà a nessuno il fatto che non si parla di pedonalizzare tutto per eliminare le auto e tornare alla vita di un tempo remoto, ma di migliorare lo spazio cittadino con benefici anche economici, visto che le città in questione sono tutte economicamente floride.
Si potrebbe pensare che noi in Italia non abbiamo bisogno di queste istruzioni, le conosciamo perchè viviamo certi luoghi ed è verissimo, perchè sono quelli citati e fotografati sul libro, ma credo che le nostre vite si stiano lentamente trasformando. Le comodità della vita contemporanea, come l'auto sotto casa e il centro commerciale dove acquistare o solo passeggiare al riparo da pioggia, caldo e pericoli, se non gestite bene, rischiano di farci perdere il senso della città, quella città che, come dicono molti e forse ci conferma anche questo libro, abbiamo inventato noi, ma che oggi non capiamo più e spesso subiamo invece di vivere.




Cities for people is a book written in 2010 by Jan Gehl, danish architect, professor and researcher, Founding Partner of Gehl Architects. Here the mission of the office: We focus on how the built environment connects to people’s quality of life.
Richard Rogers in the foreword: Jan Gehl, the doyen of public-space design, has a deep under standing of how we use the public domain and offer us the tools we need to improve the design of public spaces and, as a consequence, the quality of our lives in the cities.


I use the english titlebecausetheversionthat I purchasedandread is in english.The book, alreadytranslatedinto many languages, is not available inItalian(I would love to translate it!).
Actually readingthe storyof the authorand the book, you shouldn’tbetoo much surprised.
Italyis a constant presence, as a referencefor environmentsoflifevery precious, thoseon a human scaleinwhich people liveat ease. Our squaresand ourtown centers- the squareofSienaand the historic centerof Veniceare the most citedand photographed in the book– are a heritage thatthe whole worldvisits,admires, and continues to study, if it’s possible todaymorethan yesterday.
It is no coincidencethat in 1965Gehl, early in his career, had traveled to Italywith his wifepsychologistto observethe relationshipbetweenpeople's livesand public space, especially to look forthosepositive examplesthat were missingentirelyto the suburbswhich werebornin those yearsin Denmark. Actuallythey were bornin Italyin those yearsand as well after.
How then aDanish architectcouldcome and tell us -, I mean by publishingthe book inItalian - thatour streetsarewonderfulplaces to live? We should be ableto see itby ourselves, walking therebetter thanseeing photoson a book, if we were notso busychasingthe American dreammade of small houses, shopping centersandcarendlesslines, after having abandonedthe socialist idealof the suburbs so different but so identical. The dream - I’m not not talking about economics but of urban planning - that Americans, at least those of the younger generations, do not want anymore and in fact today they seek Italy and Europe, in the sense of the compact city they don’t have. Then continue to emerge initiatives to increase pedestrianareas in the city, constantly measured by specialized sites and placemakers involved in analysis, storytelling and redevelopment of urban space to return it to citizens life.

The bookis beautiful, illuminating, especially awayin the principlesand the methodfrom thoseboring"treated" of urban planningrestrictedand unnecessarilytechnical, wheresomeone talk aboutpopulation densitycomparingGarbatella with Corviale(!?), as well asfromthose essaysso"alternative"andmodern(or assolutamente moderniin the sense so well described byKundera).
JanGehltells us abouthis workon urban space, shows usexamplesof the pastfrom which we should start, the succesful ones of the present andthe possibilitiesfor the futureof thecities, expecially of thoseinthe developing worldwhere it would beimportantnot to fallintoallthe mistakes madein the areas ofexpansionof theEuropean and Americanmetropolis. (I’m afraid they’re doing things much, much worst than us…)
Even justreading thetitles of the chapters:
-     The human dimension
-     Senses and scale
-     The lively, safe, sustainable, and healty city
-     The city at eye level
-     Life, space, buildings – in that order
-     Developing cities
makes it clearthat it isa sort ofmanualfor the projectof the cityand itspublic spaces, full of information, examples, photos, diagrams, tables, alreadysufficient toimmediately understandthe problemsof our citiesand their causes.
The most obvious problem is the loss of useful space to urban life, given with time to moving and parked cars in the existing parts and designed so wrong in those realized in the modern era, especially in the second half of the twentieth century. You can read fromfundamental considerationsonwalking distances, to thoseon visual perceptionlostinendlessurban spaces, as well asinneighborhoods withbuildingstoo highor toolong,withground floorswithout interestand variety. Gehldefines the Brasilia Syndrome, the famousadministrative capitalof Brazilbuiltfrom nothingin the fiftiesand designed byLucioCosta, veryclose tothe architectLeCorbusier, astheemblematic example, and disastrousfrom the pointof viewof city life, of adesignconducted onlyina general scale, by functional areasandsymbolicandsculptural buildings, without understandingthe meaning and the scaleof city spacesthat would becreated, thosein which peopledisappearswallowedby spacesdimensionedin a totallywrong way. It is notnecessary to go toBrasiliato seethis kind oferrors.
 



Cities such as Copenhagen, Melbourne, San Franciscoand New York have promoted in recent years many interventions to encourage city life, returning to the city and to its inhabitants spaces they had lost especially in favor of the cars.
TheEmbarcaderoin SanFrancisco, closed to trafficin 1989due to the earthquake, remained evenafter the emergencyalarge public spaceloved and frequentedby citizens.
In Romeinmuch smaller scale it could happen inViaUrbana, wherea committeeof traders andresidents persistently asks the pedestrianization(amazing!) after having happilyexperiencedthe closureto traffic dueto roadworks.
NewYorksince 2007is implementingan urban policyforpedestrianizationandcycling, and themost strikingresultis the partialpedestrianizationofTimes Square, thehubofunbelievable traffic, privilegedsceneofso many films.
About Copenhagenand the fact thatit has becomepracticallya cityof cyclistswe already knowa lot,alsobecause the cultureof the bikehas been around formany years.
InBrightonGehlArchitectshas designeda streetwhereeveryonecirculate, butatthe paceof pedestriansand the projecthas transformedthe little-useddrivewayin a walkfull of life.

Will not escape to anyonethat itis not aboutpedestrianizeeverything toeliminate thecarsand return to thelifeof long ago, butto improve thecity spacewithbenefitsincluding economics, since the cities in questionarealleconomicallyprosperous. 
You might thinkthat inItalywe do not needthese instructions, we already know them becausewe livecertain placesand isvery true, because they arethe ones mentionedandpicturedon the book, but I thinkthat our livesare slowlytransforming. The comfortsof contemporary life, asthe carbelow the houseandthe mallwhere to buyor justwalkingaway fromrain, heatand danger, ifnotmanaged well, could make us losethe senseof the city, the citythat, as many people say and perhapsalsothis book confirms, we have invented, but todaywe do not understand it and moreoftensufferinstead of living. 

jane's walk

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Jane’s Walk is a movement of free, citizen-led walking tours inspired by Jane Jacobs. The walks get people to tell stories about their communities, explore their cities, and connect with neighbours. Join the global festival on May 1st, 2nd & 3rd, 2015.

Jane’s Walkè un movimento libero che organizza passeggiate guidate dai cittadini ispirate a Jane Jacobs. Le passeggiate portano le persone a raccontare storie sulle proprie comunità, a esplorare le città e a incontrarsi con i vicini. Unisciti al Festival globale l'1 il 2 e il 3 maggio 2015.


Dal 2015 c'è anche Jane's walk Rome
JANE'S WALK ROME - 02-03/05/2015
Il movimento è nato (non a caso) a Toronto nel 2007, proprio nella città dove Jane Jacobs, giornalista-scrittrice-(urbanista)-attivista statunitense e autrice del famoso libro Life and death of great american cities, si è trasferita da New York e ha trovato la sua nuova casa.
Nel 2013 le città aderenti al movimento erano già diventate 109 in tutto il mondo e oggi è diventato difficile contarle.

la lezione di Jane Jacobs

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In questo libro cominceremo, sia pure in piccolo, ad avventurarci nel mondo reale.

Forse in questa breve e semplice frase contenuta nell'introduzione del libro Vita e morte delle grandi città (americane), si racchiude il senso più profondo del pensiero di Jane Jacobs, che oggi rivive in qualche modo nel movimento mondiale jane's walk.


Il testo è stato ripubblicato in italiano nel 2009 da Einaudi - con il titolo di Vita e morte delle grandi città, sottotitolo Saggio sulle metropoli americane - impreziosito dalla prefazione di Carlo Olmo, il direttore del Giornale dell'Architettura.

Mi ha colpito molto vedere un quadro astratto (a me piace molto comunque!) - Suprematismo (con otto rettangoli rossi) di Kazimir Malevic -  come copertina di un libro che si batte proprio contro l'applicazione di idee astratte alla realtà. Sarà una provocazione?
Ho letto da poco questo libro sorprendente, di cui ho scoperto l'esistenza solo in tempi recenti, certamente non durante gli studi universitari e tanto meno nelle mie esperienze professionali.
Bisogna puntualizzare subito che il mondo reale della Jacobs non è quello che vive la maggior parte delle persone, ma quello di una giornalista molto curiosa, ben informata ed estremamente capace di tradurre in pensiero vivo e concreto l'osservazione della realtà.
Non credo che la Jacobs abbia molto successo tra architetti e urbanisti, ma non solo perchè, come si capisce bene leggendo l'introduzione del libro, sono il suo bersaglio principale,soprattutto quelli che aderiscono al pensiero derivante dalla Carta di Atene e dal funzionalismo


Mi è capitato non molto tempo fa di incontrare un architetto che lavora con i piani urbanistici a Roma (è molto ben inserito nei circuiti giusti, come si dice). Mi ha fatto capire, ammesso che ce ne fosse bisogno, che l'urbanistica la fanno dei tecnici la cui grande capacità è districarsi tra una serie di norme e numeri - indici, standard... - che però non sembrano avere come obiettivo la qualità dello spazio urbano pubblico e privato. A meno che qualcuno non pensi che avere tot mq di spazio libero a verde e a parcheggi consenta di ottenerla... (Soprattutto se, come capita a Roma nelle aree residenziali realizzate recentemente, le ampie aree destinate ai parcheggi sono semi-vuote e le auto dei residenti sono parcheggiate sotto casa, sul bordo della strada).
Jane Jacobs con la sua militanza di quartiere e nonostante tutte le differenze culturali, sociali, geografiche e urbane che ci separano, ha descritto benissimo e con largo anticipo molti dei problemi che vediamo oggi nelle nostre città, soprattutto nelle aree meno centrali. 
La cosa più importante è che non lo ha fatto scagliandosi contro l'idea di città in nome di un ritorno alla vita semplice immersa nel verde della campagna o di un paese, ma proprio in nome e per amore della città stessa e della necessità di salvarla. E ce lo spiega benissimo:


Nella prima parte dedicata all'analisi della città, applica un criterio induttivo, dal particolare all'universale, quindi si concentra sugli elementi principali della vita di una città. Giustamente inizia con i marciapedi che considera l'unità di base, il luogo più tipico, quello degli scambi sociali e dell'incontro. Analizzando un marciapiede in effetti si possono capire già molte cose sulla vita di un quartiere; la sicurezza dei marciapiedi determina la sicurezza e la salute sociale ed economica di un quartiere, così come la sua capacità di collegarsi al resto della città. 
Che si può dire quindi di tutte quelle aree della città in cui i marciapiedi sono slegati dalla strada e dalla vita pubblica e relegati a servizio del solo isolato o complesso edilizio?
L'analisi prosegue con i parchi di quartiere, che invece di essere considerati un bene assoluto, dovrebbero essere analizzati realisticamente per capire se sono apprezzati e frequentati o se invece diventano luoghi abbandonati, degradati e insicuri. Inutile dire che nel secondo caso occorrerà capire le ragioni, spesso legate alla loro errata localizzazione o alla mancanza di funzioni adeguate, per cercare di renderli più frequentati e vitali. 

Si passa poi ai vicinati urbani, di cui secondo la Jacobs esistono tre tipi: la città nel suo complesso, il vicinato di strada e il grande quartiere con più di centomila abitanti.
Anche qui l'autrice sfata uno dei miti più tipici e abusati dagli urbanisti:



La seconda parte del libro, intitolata Le condizioni della diversità urbana, è senza dubbio la più interessante, perchè qui Jane Jacobs conduce la sua personale analisi della complessità urbana giungendo ad individuare le quattro condizioni che definisce i generatori di diversità:
la mescolanza di funzioni primarie - gli isolati piccoli - gli edifici vecchi - la concentrazione.


Nonostante le accurate analisi supportate dall'osservazione e dalle ricerche dell'autrice, non possiamo essere certi che un quartiere più o meno grande dotato di queste quattro condizioni diventi città, ma non c'è dubbio che si tratta di elementi molto importanti da considerare se vogliamo inaugurare una nuova stagione urbanistica.
Non a caso negli Stati Uniti, dove non dimentichiamolo non esistono i nostri centri storici, Jane Jacobs è da tempo considerata una delle più importanti protagoniste del pensiero urbano contemporaneo e, come scrive Olmo nella prefazione, i New Urbanists hanno scritto il loro manifesto riprendendo molte tesi sostenute in questo testo.
Credo che sarebbe un grave errore però interpretare il libro della Jacobs come un manifesto contro la modernità rappresentata dalle auto e dalle strade di scorrimento o ancor peggio a favore del progetto partecipato come espressione degli interessi particolari ed esclusivi di un vicinato urbano in lotta contro l'evoluzione della città e della sua economia.
Preferisco piuttosto considerarlo un importante contributo culturale all'analisi della città, analisi che in realtà diventa quasi uno schema mentale e progettuale che può aiutare a costruire la città di domani, e perchè no anche quella di oggi.

EU Mies Award 2015 - Philarmonic Hall in Poland

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La Sala Filarmonica di Szczecin (Stintino, Polonia) progettata dallo studio italo-spagnolo Barozzi/Veiga (Fabrizio Barozzi 1976, Italia - Alberto Veiga 1973, Spain) è il vincitore del premio dell’Unione europea per l’architettura contemporanea - Mies van der Rohe Award 2015, come annunciato a Barcellona lo scorso 8 maggio.

Philarmonic Hall, Szczecin (Poland) by Barozzi / Veiga
Jury chaired byCinoZucchi: This winning project finds a convincing formal and spatial strategy for a city which strives for a better future in a fast changing economy and social patterns, delivering a dignity to urban life and the same time enhancing the city’s specific historical identity with a contemporary “monument”.

Entrance Hall - ©Simon Menges
La Sala Filarmonica di Szczecin ospita una sala sinfonica per 1000 spettatori, una sala per la musica da camera che può accogliere 200 spettatori, uno spazio polifunzionale per mostre e conferenze, e un ampio foyer. Nella sua materialità, l’edificio è percepito come un elemento leggero: la facciata di vetro, illuminata dall’interno, procura percezioni diverse. L’austerità esteriore e la semplice composizione degli spazi interni di circolazione contrastano con l’espressività della sala principale e della sala da concerto rivestita in foglia d’oro.

Jury visit of The Philarmonic Hall
L’architettura è uno dei pilastri fondamentali del settore culturale e creativo in Europa. Offre impiego diretto a oltre mezzo milione di persone, e ad oltre 12 milioni di persone del settore edile. L’architettura fa parte dei settori culturali e creativi, che rappresentano il 4,5% del PIL dell’Unione europea.
Il Premio dell’Unione europea per l’architettura contemporanea - Mies van der Rohe Award riconosce l’eccellenza e incoraggia gli architetti a lavorare fuori dai propri confini nazionali, per contribuire alla costruzione di un’Europa più forte e più creativa, in linea con gli obiettivi delle strategie europee 2020.

EU Prize for Contemporary Architecture

Architecture is a gradual process that adapts to social, political and economic changes.
The Prize objectives aim at promoting and understanding the significance of quality and reflecting
the complexity of architecture’s own significance in terms of technological, constructional,social, economic, cultural and aesthetic achievements.


Architecture’s significance – linked with the construction market – has a social Impact and transmits a cultural message. Quality therefore refers to universal values of generic buildings, independent from their programmes: the essence of things rather than their formal values.


architettura e pianificazione urbanistica

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Progettazione architettonica, urbanistica e pianificazione strategicaè il titolo della relazione che Franco Archibugi, professore di Economia e Pianificazione, Presidente e fondatore del Centro di studi e piani economici, (organismo di ricerca finalizzata allo sviluppo di un approccio integrato e unificato della pianificazione) ha scritto per il suo intervento al Congresso nazionale INARCH: “Architettura: una risorsa per la modernizzazione”, tenutosi a Roma all'Auditorium della Tecnica il 21 Gennaio 2000.

Città dello sport a Tor Vergata - foto da skyscrapercity


L'intervento è talmente ricco di spunti e considerazioni fondamentali che è stato difficile fare una selezione per non riprodurlo interamente. Compenserò la lunghezza della "sintesi" evitando miei commenti. Ha già detto e scritto tutto così bene Archibugi che è difficile aggiungere altro.



1. L’architettura componente essenziale della pianificazione urbanistica
[…] mi limiterò ad esternare qualche convinzione, che ho maturato dopo alcuni decenni che mi occupo di pianificazione in generale ed urbanistica in particolare.
La prima convinzione – che non suonerà certo bizzarra agli orecchi dei colleghi architetti – è che nella pianificazione urbana un requisito fondamentale di successo della pianificazione è la presenza di elevati valori architettonici. La città, la città vivibile e desiderabile, la città efficiente e funzionante, la città che produce “effetto-città” (cityness) deve avere una componente architettonica importante, altrimenti non raggiunge i suoi scopi.
La seconda convinzione tuttavia - per la quale non sempre ho incontrato adeguata comprensione presso i colleghi architetti – è che la componente architettonica è solo una delle componenti di una pianificazione urbana efficace; una componente indispensabile, ma assai lontana dall’essere sufficiente.
Il PRG di Roma del 1962
2. Il danno di una visione solo architettonica della pianificazione urbana
[…] Il problema è che i pretesi piani che abbiamo saputo produrre o praticare fino ad oggi erano, e purtroppo sono ancora, tutto fuorchè “piani”, bensì una loro incompetente e presuntuosa mistificazione; essi erano, e sono ancora, solo configurazioni disegnate, belle cartografie colorate per riviste patinate, senza nessun riscontro nelle possibilità di attuazione, e senza una adeguata contabilità socio-economica che ne sancisse la fattibilità.
Ma da tutto ciò, ho maturato anche una terza convinzione: che la scarsa fattibilità o coerenza dei piani solo fisici e disegnati, anziché esaltare il valore architettonico della pianificazione, lo ha depresso, peggio affossato.

3. Complementarietà fra piani urbanistici e “grandi opere” architettoniche
Fallita la stagione dei piani (ma in realtà caricature di piani), è succeduta quella delle “grandi opere”. Ma le grandi opere senza una adeguata strategia territoriale a monte fanno fatica a mettere le gambe. Nei paesi in cui si sono realizzate, e che usiamo prendere ad esempio di maggiore vitalità architettonica, esse sono state precedute da opzioni territoriali ben precise, che hanno disegnato dapprima un percorso strategico di opzioni che non erano architettoniche bensì politico-sociali, territoriali e urbanistiche nel senso più completo della parola, sostenute da analisi di fattibilità economico-finanziaria, serie e responsabili. Cioè da piani strategici di medio-lungo periodo effettivi, autentici, e non solo di nome.
[…] Una progettazione ben strutturata a monte nei suoi termini di riferimento, è una progettazione che è avviata a trovare un percorso facile nella sua attuazione. Un progettazione senza vincoli a monte, si trova invece nella necessità di inventare cammin facendo (ma un cammino irto di tentativi e di feed-back) i suoi propri aggiustamenti e arrangiamenti estemporanei, con risultati temporali, e anche di contenuto, deleteri, che negano gli stessi valori della progettualità, che sono quelli di studiare razionalmente in modo unitario e sistemico, il massimo di condizioni e di scelte in sede di progetto.
E’ inoltre da considerare il rischio che il prodotto di queste progettazioni, senza definizioni di vincoli, standard e parametri, finisca per superare talmente i mezzi a disposizione, da paralizzarsi, e non avere alcun risultato operativo.
Dunque, la fattibilità studiata ex ante è anche garanzia di speditezza, facilità e rapidità delle decisioni. Quella frenesia degli architetti-urbanisti di mettersi scarpe non proprie, ha costituito per l’architettura un bel boomerang. Ha paralizzato le decisioni; reso immediatamente conflittuale ogni progetto, creando situazioni di stallo decisionale; giacchè le opzioni circa l’uso delle risorse si sono fatte non in sede strategica– preventiva alla valutazione dei singoli progetti e da persone competenti cioè da programmatori – ma per ogni progetto casuale preso per se stesso.
Centro Congressi "La Nuvola" all'EUR - foto da Il Post
4. Vincoli e creatività: capitolati più chiari e forti
Non bisogna dimenticare che spesso la causa di questo è nell’assenza di professionalità. In primo luogo della professionalità dei decisori (politici ed amministrativi) e dei loro esperti, cui incomberebbe il compito di pianificare in modo più “strategico” e sistematico le proprie singole decisioni ed iniziative. Soprattutto di avere – almeno per quanto riguarda l’iniziativa degli enti pubblici – una visione più programmata ed efficiente dei rapporti fra obiettivi, mezzi (finanziari e no) a disposizione, e territorio, e la capacità di avere dei misuratori dei risultati.
Ma dobbiamo riconoscere che è anche responsabilità dei progettisti che talora accettano, non solo senza “fiatare”, ma anche con una certa soddisfazione, l’assenza di vincoli, parametri, standard e indicatori di prestazione, nella presunzione che ciò renda più “libera” la loro attività creativa. A parte il fatto che ciò contrasta con autorevoli convinzioni di studiosi del comportamento psicologico, secondo i quali sono proprio gli ostacoli, le difficoltà, e quindi i vincoli, a sviluppare, stimolare, incentivare, la creatività e una efficiente progettualità, non bisogna neppure sottovalutare i danni, i rischi, che una progettualità senza vincoli crea alla realizzabilità dei progetti.
Dovrebbe pertanto far parte del bagaglio professionale di ogni progettista la capacità di valutare quando il cliente – specialmente se pubblico – non fornisce al progettista termini di riferimento sufficientemente chiari e vincolati (da scelte a monte) alla sua progettazione; e quella di chiederne la formulazione.
Certo, il singolo progettista non dovrebbe essere lasciato solo ad affrontare il committente pubblico (che già si cattura con difficoltà) in questa difficile operazione di persuasione, che potrebbe arrivare perfino al rifiuto di assunzione di incarico, se l’incarico non corrisponde ai requisiti di una professionalità corretta nel distribuire incarichi. Sono allora delle istituzioni professionali come l’IN/ARCH (è una proposta!) che potrebbero elaborare e rendere pubblici dei codici di comportamento, concernenti sia l’elaborazione di “capitolati” di progetto da parte dei decisori pubblici sia le modalità di accoglimento da parte dei progettisti di tali capitolati.
Tutto ciò è indubbiamente meno rilevante nel caso di clienti “privati” i cui progetti sono certamente assai più concretamente condizionati da vincoli, specie finanziari, e quindi più facilmente corredati di capitolati ricchi di targets predefiniti e di condizioni operative più forti di quelle incluse nei progetti pubblici. Lo stesso progettista è indotto, nel caso di progetti pubblici, a sentirsi più “rilassato” di fronte alla assenza di dovuti vincoli, sperando nella naturale flessibilità dell’operatore pubblico, che spesso però si traduce – come già detto - in un boomerang contro la efficienza operativa del progetto stesso, e dà luogo a infiniti contenziosi e ritardi e aggiustamenti (ciò è esattamente quello che rende così poco appetibile il mercato italiano a progettisti di altri paesi, allenati ad una altro clima operativo e professionale).
[…] Ebbene: in campo architettonico e progettuale , la committenza forte è rappresentata da un serio piano urbanistico che non può essere che il prodotto di un processo decisionale complesso, di natura politica e amministrativa, ma finalizzato a dotare una comunità di una sua “strategia” territoriale di lungo periodo (ovviamente suscettibile di scadenzate revisioni e aggiustamenti); in campo urbanistico, la committenza forte è rappresentata dalla capacità di giungere ad un piano urbanistico completo, integrato, e comprensivo di tutti quei requisiti che ne assicurano la fattibilità operativa. 

5. Pianificazione urbanistica e pianificazione strategica
[…] La pianificazione strategica non è che il cuore di quella “reinvenzione” del governare, che è diventata la salutare ossessione di tutti i governi nei paesi avanzati, in particolare negli Usa, per migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, e per ridurne la dimensione e il sovraccarico, e che sta operando colà una vera rivoluzione gestionale.
[…] Lo sforzo essenziale in questo paese è quindi quello di migliorare la capacità professionale del decisore pubblico. Essa potrà essere rimossa con intensi sforzi, non solo di “riforme amministrative” (che da decenni si succedono da noi, senza molti successi sostanziali) ma da un intensa formazione della dirigenza pubblica. Questa formazione potrà toccare anche i politici (gli eletti), ma soprattutto deve essere indirizzata ai dirigenti amministrativi (dei nostri Ministeri, delle nostre Agenzie, dei nostri Enti e Società operative pubbliche, delle nostre Regioni, Provincie e Comuni).
[…] In conclusione, mi sento di affermare, e di scommettere per il futuro, che il miglioramento della pianificazione urbanistica da parte dei gestori delle città, che come ho detto è condizione essenziale di una maggiore vitalità della operatività architettonica, passa per il più vasto consolidamento della gestione e pianificazione strategica nelle diverse amministrazioni pubbliche, in particolare con quelle locali più direttamente attinenti alla gestione del territorio.


Ridolfi a via de rossi

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La palazzinaZaccardi, realizzata su progetto di Mario Ridolfi e Wolfgang Frankl tra 1951 e il 1954 a Roma in Via G.B. De Rossi, quella strada piena di belle case che unisce Via di Villa Torlonia con Viale XXI Aprile (ne scriverò ancora), rappresenta senza dubbio uno degli esempi più interessanti e riusciti del fortunato tipo edilizio romano tanto disprezzato. 


Certamente oggi lo stato di degrado delle superfici, soprattutto gli intonaci scrostati e l'opacità delle tinte annerite da tanti anni di smog, problema purtroppo comune a molte opere novecentesche, e la difficoltà nell'abbracciare con lo sguardo l'edificio nel suo complesso, soprattutto l'attacco a terra nascosto dalle molte auto in sosta, non rendono molta giustizia all'opera.


La soluzione d'ingresso, quella che rappresenta la parte pubblica,è molto particolare e sicuramente ha richiesto studi apporfonditi. Sembra un'ampliamento del marciapiede, quasi un'appendice dello spazio urbano, è uno spazio pavimentato e parzialmente coperto, riceve laluce dall'alto grazie all'arretramento del corpo di fabbrica superiore. Una trave in cemento armato sagomata viene mostrata su quasi tutta la facciata principale, la caratterizza, ma forse non ha la grazia degli altri elementi architettonici "organici" della palazzina.
 

Possiamo vedere nello sviluppo planimetrico e geometrico un'evoluzione del razionalismo di Ridolfi in senso più organico, meno astratto, più sensibile e più umano rispetto alle opere precedenti.


Resta infatti perfettamente visibile ancora oggi il lavoro dei progettisti nell'elaborazione di una soluzione volumetrica in ottimo equilibrio tra la classicità del ritmo e delle aperture e il movimento e la geometria complessa della facciata con il gioco tra la parete, i bow-window e i balconi in un rapporto molto ben studiato tra addizione e sottrazione, tra luce ed ombra.
Anche il dettaglio delle balaustre dei balconi in ferro e vetro a sostegno delle fioriere in ceramica colorata dimostra un'attenzione rara, quasi un ritorno moderno all'artigianalità e all'ornamento, che Loos e i seguaci razionalisti avevano cancellato in maniera così brutale.


Mario Ridolfi è stato senza dubbio uno degli architetti italiani moderni più bravi e più tormentati, ha lasciato alla città di Roma molte opere di qualità, prima fra tutte il suo capolavoro, l'edificio delle poste di Piazza Bologna, quello che non a caso ho scelto di fotografare come copertina per il mio blog. Rappresenta benissimo la perfetta sintesi tra geometria e sentimento, la vera marcia in più che ha avuto l'architettura italiani degli anni d'oro del Novecento e oggi non ha più.

ritorno all'accademia di Danimarca

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Sono tornato all'Accademia di Danimarca nelle giornate Open House del maggio scorso, per una lunga visita guidata dalla segretaria scientifica dell'Accademia, Anna Wegener, padrona di casa perfetta, desiderosa di far conoscere l'edificio e di raccontarci la storia della sua realizzazione.


Come ho già scritto mesi fa, il progetto architettonico è dell'architetto danese Kay Fisker, che dopo numerose ipotesi e varianti è giunto alla felice soluzione che oggi tutti possiamo vedere. 


In realtà sfortunatamente non l'ha potuta vedere, perchè è morto due anni prima dell'inaugurazione dell'edificio, avvenuta come si legge nell'atrio di ingresso nel 1967.
Oltre al tempo richiesto per l'elaborazione del progetto e per le varianti richieste - Fisker aveva previsto un tetto a spiovente come nell'Università di Aahrus, ma il direttore volle una copertura piana - ci furono problemi amministrativi legati all'area di progetto, donata dal comune di Roma, tanto che la prima pietra dell'edificio fu posta fuori dal perimetro odierno.
Il corridoio di servizio del piano terra, quello che corre lungo la facciata laterale verso l'Accademia di Svezia, accoglie sulla parete verso l'interno molti disegni del progetto nelle sue diverse fasi e il plastico finale dell'edificio.



Probabilmente il filo conduttore dell'edificio è l'utilizzo del mattone giallo, realizzato apposta per l'Accademia, che riveste sia le pareti esterne che quelle interne, con l'unica eccezione dell'auditorium in cui i mattoni gialli sono stati riverniciati di bianco creando un effetto molto diverso dagli altri ambienti, anche per il soffitto bianco e geometricamente movimentato dovuto all'inserimento dell'impiantistica necessaria.

Foto di eventi all'auditorium dal sito dell'Accademia

La Wegener ci ha guidato all'interno dell'edificio, mostrandoci l'atrio, la stanza del portiere con una feritoia sul muro per il controllo dell'ingresso, il guardaroba e l'auditorium, la biblioteca, la sala comune con la cucina attigua che affacciano sul grande cortile esterno, quello di arrivo della scalinata esterna, e il piccoli patio con gli arredi danesi originali degli anni sessanta.

Foto giornate Open House dal sito dell'Accademia

Gli interventi di ristrutturazione non mancano e l'Accademia ha riaperto i battenti a fine marzo scorso dopo essere stata chiusa per mesi a causa di vari lavori di adeguamento.
E' stato realizato un nuovo sistema di illuminazione più appropriato, studiato appositamente dagli architetti per avere luce diffusa, come si può vedere bene nella biblioteca, un piccolo gioiello con un ballatoio perimetrale, inondato di luce naturale dall'alto alla quale si somma quella artificiale, mai diretta, inserita sotto il ballatoio e nella scala principale in cui la luce che illumina i gradini in mattoni scuri di klinker è inserita sotto il corrimano.

Foto della biblioteca dal sito dell'Accademia

Numerosi altri interventi sono stati realizzati, come la sistemazione di un patio esterno fornito di piante aromatiche a livello della cucina comune, sul lato dell'Accademia di Svezia, il recupero del pianerottolo della scala principale con vetrata che guarda verso Valle Giulia, come saletta di lettura con libreria attrezzata sulla parete interna e il sistema di condizionamento alloggiato nei corridoi principali smontando e poi rimontando i bei controsoffitti in legno originali.

Foto lavori dal sito dell'Accademia

Altri lavori sono previsti per l'estate in arrivo e riguardano la prima rampa della lunga scalinata esterna che sarà rivestita di nuovo in mattoni gialli come in origine.



MACA Alicante

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Il MACA, Museo di Arte Contemporanea di Alicante, si trova proprio nel centro storico della città spagnola della Costa Blanca, oggi centro turistico in espansione, ma di antichissime origini legate anche ai Romani, che proprio in quella zona fondarono nel III secolo a.C. la città di Lucentum.
Realizzato su progetto dello studio Sancho-Madridejos di Madrid e completato nel 2010, l'edificio di proprietà del Comune di Alicante è il frutto di un concorso di progettazione lanciato nel lontano 2001 e finanziato interamente dalla Comunità Valenciana (la regione).


L'intervento, che ha generato questo nuovo complesso museale di 4680 mq di superficie su quattro piani fuori terra e due interrati, è consistito nella ristrutturazione di un edificio barocco del 1685 piuttosto importante, la Casa de La Asegurada e nella realizzazione di una nuova costruzione in adiacenza alla preesistente che ingloba per formare un unico edificio



L'importanza di questo edificio, che rientra in un piano generale di riqualificazione del centro storico di Alicante, el barrio o casco antiguo per dirla all'alicantina, già da anni in fase di rinascita dopo molti anni di degrado e abbandono, è data  soprattutto dalla nuova funzione turistico-culturale, poco presente nella città, che contribuisce a dare nuova vita ad una piazza importante con edifici storici tra i più antichi che Alicante possa vantare.

La piazza, la chiesa e il museo (google maps)
L'ingresso principale al Museo è stato localizzato sulla facciata barocca della Asegurada e si apre sulla piccola Plaza Santa Maria, che prende il nome dalla bella, antica e imponente cattedrale di origine gotica ma di aspetto barocco soprattutto per la facciata in pietra.
Il rapporto con la facciata preesistente, non sappiamo quanto libero da vincoli imposti, sembra poco coraggioso e "scolastico" nell'accostamento - quasi polemico verso la conservazione - ma si riscatta trattando la pietra con una meravigliosa leggerezza che la smaterializza.

Foto generali e pianta piano terra (sito Maca)
Il programma museografico mette in primo piano conservazione e didattica e l'edificio ospita una sala per esposizioni temporanee, quattro per la collezione permanente, oltre agli spazi per la biblioteca, la didattica, gli eventi e le conferenze.
La difficoltà del progetto risiedeva soprattutto nella necessità di prevedere spazi per una collezione di opere contemporanee illuminate naturalmente in un edificio che necessariamente si sviluppasse più in verticale che in orizzontale e che doveva anche ambientarsi in un contesto storico stratificato e reso ancora più complesso dalla presenza di forti variazioni altimetriche. 
Forse visto nel complesso e in rapporto alla città che lo circonda, l'edificio sembra troppo alto, un po'fuori scala soprattutto rispetto alla cattedrale, ma la scelta è stata obbligata dal programma museale, dalla dimensione del lotto e dalla necessità di sottrarre per portare la luce naturale dall'alto e visti dalla piazza i volumi in copertura retrocessi sono meno invasivi.

Foto atrio, sala espositiva e patio in copertira (sito Maca)
Pienamente contemporaneo nelle forme e nei materiali, rivestito in pietra (travertino) per ambientarsi il minimo indispensabile, l'edificio gioca con la giustapposizione di volumi puri che, attraverso il gioco tra pieni e vuoti a partire dal secondo piano, fa entrare molta luce naturale dall'alto e crea spazi esterni e di copertura inaspettati, in cui la luce naturale è così intensa da far credere al visitatore di trovarsi all'esterno quando invece è all'interno. 

Sala delle sculture al MACA (google immagini)

Un piccolo capolavoro insomma, sia dal punto di vista formale che funzionale, soprattutto nella splendida luminosità che caratterizza quasi tutti i suoi interni anche se privi di finestre. 
Sembra infatti che gli spazi espositivi ai vari livelli formino un continuum e siano collegati tra di loro più o meno direttamente attraverso un ordine gigante complesso e articolato, che permette ai visitatori sempre nuovi affacci verso l'interno delle sale.


Gli architetti sposano il minimalismo, sono molto attenti e bravi a ricercare il dettaglio elegante, amano il taglio netto tra orizzontale e verticale e l'uso di pochi colori e materiali, sempre a filo l'uno con l'altro, in continuità e contiguità.

l'architettura della partecipazione

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L'architettura della partecipazioneè il titolo dell'intervento, divenuto poi un saggio ripubblicato recentemente da Quodlibert insieme ad altri scritti sui suoi due più celebri progetti partecipati per Terni e Rimini, che Giancarlo De Carlo, architetto genovese (1919-2005), fece a Melbourne nel 1971 per la terza conferenza del ciclo intitolato L'architettura degli anni '70 organizzata dal Royal Australian Institute of Architects. 
Lo avevano preceduto nel 1969 il critico di architettura inglese Jim Richards con L'opinione di un critico e nel 1970 l'architetto Peter Blake - nato in Germania come Peter Jost Blach ma poi divenuto cittadino americano, è sua la famosa frase Form follows fiasco - con Le nuove forze.




L‘architettura è troppo importante per essere lasciata agli architettiè l’aforisma più noto di Giancarlo De Carlo, come ci ricorda Massimo Locci su Presstletter.
Giancarlo De Carlo ha raccontato più volte che, giovane architetto, trascorreva alcune ore la domenica pomeriggio in un bar di fronte alle palazzine che aveva costruito a Sesto San Giovanni. Erano palazzine dell'Ina Casa, correvano i primi anni Cinquanta. Si sedeva e osservava come quegli appartamenti venivano vissuti... l'aneddoto riproposto da Francesco Erbani.

In effetti mai come oggi la partecipazione al progetto di architettura e di urbanistica è vista come la principale via d'uscita per una nuova professione più attenta ai veri bisogni dei cittadini. 
Non ci sono dubbi quindi sul fatto che Giancarlo De Carlo abbia avuto all'epoca una grande intuizione sul futuro della professione di architetto.


Condividendo pienamente il concetto espresso, il problema diventa allora capire come si fa a farlo veramente un progetto partecipato. Sicuramente il pensiero di De Carlo è particolarmente valido e importante per edifici e spazi pubblici, in cui non ci sono dubbi sul fatto che l'architetto debba lavorare all'interno di una cornice sempre più definita, come si può leggere già nel post dedicato alla relazione del professor Archibugi all'Inarch su architettura e pianificazione urbanistica.
Resta da chiarire però cosa può succedere nel caso di interventi privati, in cui il cliente può essere un imprenditore che vuole mettere sul mercato un intervento residenziale o terziario. Come si sviluppa il progetto partecipato quando non si sa chi saranno gli utenti dell'edificio? 

De Carlo osserva che nelle riviste specializzate il giudizio sull'opera è legato quasi esclusivamente a valori figurativi, non all'uso che se ne fa e questo criterio non cambia neppure in altri mezzi di informazione meno legati alle mode del momento, come i libri di storia dell'architettura o le Università e neppure nelle conferenze di architettura. L'architettura è considerata un'arte e come tale lontana dalla realtà dell'uso quotidiano. In passato non succedeva, l'architettura era legata a chi la usava e la pittura, che la rappresentava come oggi fa la fotografia, mescolava sempre edifici e persone. Secondo l'autore è dalla fine del XVIII secolo, con lo sviluppo di una concezione romantica dell'arte che la gente è sparita dall'architettura.

De Carlo sa bene però che l'impressione generale è che sia dopo il Movimento Moderno che sono state realizzate le architetture e i quartieri più lontani dalle persone e dai loro bisogni, nonostante la preoccupazione iniziale dei suoi protagonisti, ben sintetizzata nel famoso detto La forma segue la funzioneattribuito a Louis Sullivan.
Gli errori compiuti dagli architetti moderni quindi sono derivati da un'eccessiva semplificazione dei problemi da risolvere e dei temi da affrontare, causati dallo sviluppo ancora non adeguato delle scienze umane e sociali che hanno creato come utente finale un individuo studiato solo in chiave funzionale, trascurandone l'aspetto sociale. Più in generale la complessità della città come luogo di produzione e di scambio è stata vista come un elemento di confusione da semplificare attraverso la sua riduzione ad una macchina funzionale (zoning). 


Nel tentativo di salvare Le Corbusier e i suoi discepoli De Carlo sostiene che lo zoning fu inventato dagli urbanisti tedeschi del XIX secolo per mettere ordine nello sviluppo urbano e poi si affermò in Inghilterra, Stati Uniti e in tutto il mondo industrializzato e arrivò ai moderni già pronto.
Non ci sono dubbi però sul fatto che fu proprio LC con la Carta di Atene a portare ai suoi estremi ideologici l'idea della macchina da abitare e della città con le funzioni ben separate.
Il capitolo zoning si conclude sottolineando le istanze di rinnovamento sociale che una parte del MM si proponeva con la nuova urbanistica e il suo equivoco sulla chiarezza che ha finito per semplificare in maniera sbagliata i rapporti tra persone e ambiente costruito.


Credo però che su questo punto, il concetto di chiarezza, la narrazione dell'autore si perda un po' nel tentativo di giustificare in maniera troppo ideologica il fallimento dei moderni, che hanno cercato (sbagliandosi) di cambiare la società attraverso la forma della città e dei nuovi quartieri residenziali che hanno progettato e realizzato.
Le forme urbane create sono talmente chiare - in senso reazionario o socialista e rivoluzionario? Davvero è così importante scoprirlo? - da diventare banali, avvilenti, ripetitive e ossessive. Appiattiscono l'ambiente costruito sia dal punto di vista fisico e formale che da quello umano e sociale ed è difficile non associarle ad alcuni regimi autoritari moderni che, come questo tipo di architettura e urbanistica, hanno cercato di trasformare l'uomo in una macchina.


Giustamente De Carlo sottolinea l'importanza degli studi compiuti dagli architetti moderni sulla residenza e sulla razionalizzazione degli spazi abitativi, che oggi utilizziamo costantemente.
Io aggiungerei il fatto che forse la casa idealeè quella che ha l'esterno antico, magari in pietra quindi ben ambientato e isolato, ma gli interni moderni con gli spazi ben sfruttati e illuminati e arredi contemporanei belli e funzionali.


La critica così indovinata e ben argomentata alla tendenza "formalista" dell'architettura, porta inesorabilmente la professione ad un bivio; da una parte la continuità con il passato più recente - possiamo constatare facilmente che la tendenza si è estremizzata portando con tutta evidenza la forma a debordare costantemente e l'architetto a fare sempre più la parte dell'artistoide - dall'altra una nuova dimensione della progettazione definita appunto l'architettura della partecipazione, tendenza in atto già da tempo e sempre più sviluppata nelle città di oggi, in cui le persone si riappropriano dei loro spazi di vita.



La questione principale quindi riguarda la maniera in cui questa architettura della partecipazione può essere messa in atto efficacemente, ma su questo punto sembra che l'autore non voglia dire molto, limitandosi solo ad alcuni appunti riguardanti: progetto e processo - ordine e disordine - sistemi aperti. 
L'ultimo appunto che chiude il saggio De carlo lo intitola emblematicamente: 
È morta l'architettura: Viva l'architettura.
 

Progetto Flaminio

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Studio 015 Paola Viganòè il vincitore del concorso internazionale di progettazione per il quartiere della Città della Scienza.

Paola Viganò commenta “la nostra è un’idea di progetto come risorsa rinnovabile. Un linguaggio urbano solido che si lega a scelte che vanno molto in profondità. La fattibilitàè il manifesto del progetto, un atto rivoluzionario in Italia, l’idea che sia qualcosa che si possa fare.”
 

Paola di Biagi - Presidente di Giuria ha così motivato la scelta : “ Il percorso di Progetto Flaminio, grazie al lavoro di tutti e 6 i finalisti ha progressivamente messo in luce le grandi potenzionalità dell’area, coniugando le esigenze della cittadinanza, che abbiamo incontrato più volte, del Comune e della committenza.
In questo senso, Studio 015 Paola Viganò è stato scelto dalla giuria come progetto vincitore poiché individua una soluzione urbana in cui ciò che assume senso sono le relazioni e le centralità urbane, gli spazi aperti, il paesaggio e quindi la qualità dell’abitare. Un progetto che propone una totale permeabilità e fruizione pubblica dell’area, che supera il suo carattere di recinto militare e consente una maggiore penetrazione del tessuto urbano da parte di abitanti e cittadini.”
Per queste qualità e per la sua flessibilità, il progetto rappresenta una buona e solida base per avviare e sostenere il percorso di progettazione e attuazione futura”


Ho aspettato l'apertura del MAXXI alle 11 insieme a un gruppetto di persone, soprattutto turisti stranieri in visita al museo e genitori o nonni con bambini in bicicletta che utilizzano la piazza esterna come parco di quartiere (non potrebbero aprirlo prima!?), ma solo io sono entrato nella sala che ospitava i progetti del concorso per il Progetto Flaminio.
Ho visto le tavole e i plastici dei finalisti, solo quello vincitore era già inserito nel contesto urbano e l'impressione è che fosse il più chiaro e indovinato per gli spazi creati e per la scala dell'intervento. Poi i molti dossier dei partecipanti alla prima fase. C'erano nomi importanti anche a livello internazionale, quasi tutti scartati. Deve essere stato piuttosto diffcile valutare quelle centinaia di dossier così diversi. Si passava da quelli che si limitavano ad un portfolio con i lavori svolti (peccato Moneo!), a quelli che presentavano ricerche e proposte piu o meno approfondite. Non ho visto quelli dei finalisti. Le perplessità di cui ho scritto nella prima fase restano tali. 

Sono abbastanza d'accordo con Luca Molinari sulla necessità di riportare l'architettura e gli interventi urbani a terra, sia nel senso di renderli più fattibili che di legarli maggiormente al suolo lavorando sui piani terra. Le sue considerazioni urbane sono sicuramente in linea con le tendenze generali, ma non direi che questo concorso si possa definire un esempio perfetto
Difficile anche dare torto a Prestinenza Puglisi quando definisce deludenti i risultati della seconda fase, anche se non credo si possa dare la colpa solo alla Giuria. 
Ho già scritto brevemente su facebook che siamo tutti d'accordo sul fatto che il progetto vincitore di un concorso debba essere eccellente, ma chi ha detto che deve essere innovativo? Pensate a quanto potevano essere innovativi al tempo Corviale, Vigne Nuove e Laurentino 38 o a quanto lo è molta architettura-spazzatura di oggi! L'architettura deve disegnare spazi di vita piacevoli, ben organizzati e stimolanti per le persone, non serve a sperimentare le proprie idee, spesso folli, sulla pelle degli altri.
Da questo punto di vista quindi il Concorso del Flaminio rappresenta certamente un'esperienza diversa, meno legata al grande gesto architettonico e al linguaggio tanto vario e creativo quanto uguale e standardizzato, premiando infatti un gruppo di progettisti che lavora sullo spazio urbano come rigeneratore dei luoghi in Paesi che ci credono molto più di noi come Francia e Belgio. Quasi un omaggio postumo a Bernardo Secchi, ex socio della Viganò scomparso lo scorso anno, uno degli urbanisti italiani più conosciuti.

Caruso St John Architects (Londra)
IaN+ (Roma)
Juan Navarro Baldeweg (Madrid)
KCAP Architects&Planners (Amsterdam)
Labics – Paredes Arquitectos (Roma-Madrid)
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